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5.1 Premessa: la tecnologia fotografica dell’epoca Apollo

Le circa 20.000 fotografie scattate durante le missioni Apollo furono ottenute tutte usando pellicole fotografiche: sottili nastri di materiale trasparente, cosparsi di sostanze chimiche che reagiscono quando vengono esposte alla luce e rivelano un’immagine a colori o in bianco e nero quando vengono sviluppate in appositi bagni chimici. All’epoca non esistevano le fotocamere digitali.

Specificamente, le pellicole usate per le foto scattate sulla Luna dagli astronauti furono principalmente Kodak Ektachrome MS ed EF a colori con sensibilità (capacità di raccogliere la luce) di 64 e 160 ISO rispettivamente, e Kodak Panatomic-X in bianco e nero, con sensibilità di 80 ISO (nella documentazione d’epoca delle missioni lunari la sensibilità delle pellicole è riportata in ASA, che equivalgono esattamente ai valori ISO odierni).

Entrambe erano nel formato 70 mm: in altre parole, il nastro di pellicola era largo 70 millimetri. La risoluzione (capacità di registrare dettagli molto fini) di queste pellicole era impressionante persino per gli standard odierni: 80 linee per millimetro per le pellicole a colori e 170 linee per millimetro per quelle in bianco e nero. Per usare la terminologia moderna, queste risoluzioni equivalgono all’incirca a 40 megapixel per le foto a colori e ben 160 megapixel per quelle in bianco e nero, secondo i realizzatori del progetto di scansione con scanner ultramoderni delle immagini Apollo presso la Arizona State University.

Figura 5.1-1. Uno spezzone di pellicola fotografica in formato 70 mm, come quello usato per le missioni Apollo. L’immagine mostra un duplicato di una pellicola originale di Apollo 16. I puntini bianchi sono frammenti staccatisi dal veicolo spaziale durante la manovra di estrazione del modulo lunare. Fonte: Terapeak.com.


Figura 5.1-2. Un duplicato per contatto della pellicola 70 mm usata sulla Luna per la missione Apollo 11, proveniente dall’archivio personale di Buzz Aldrin e venduta all’asta nel 2008 per circa 6000 dollari. Fonte: Icollector.com.


Per le foto a colori fu scelto di usare pellicola di tipo invertibile, ossia che produce diapositive osservabili direttamente, anziché la pellicola standard dell’epoca, che generava negativi (immagini con colori o toni di grigio invertiti) e andava stampata su carta fotografica per restituire i colori originali. A prima vista questa scelta può sembrare strana, dato che la pellicola per negativi ha una maggiore tolleranza alle condizioni di luce difficili e alle sovra e sottoesposizioni, ma fu dettata dal fatto che usando dei negativi sarebbero sorti problemi di fedeltà dei colori. Nelle foto scattate nello spazio o sulla Luna, infatti, sarebbe mancato spesso qualunque oggetto familiare da usare come riferimento per i colori, come si fa sulla Terra, e quindi i tecnici dei laboratori fotografici avrebbero avuto difficoltà nel regolare il procedimento di sviluppo e stampa dei negativi per ottenere i colori reali. La pellicola per diapositive non aveva questo problema.

Queste pellicole derivavano da quelle usate per le ricognizioni fotografiche fatte con gli aerei in alta quota, dove dovevano sopportare temperature fino a -40°C. Il loro speciale supporto di poliestere Estar aveva una temperatura di fusione di 254°C, ed era più sottile del normale per consentire di immagazzinare in ogni caricatore (contenitore rimovibile e sigillato contro infiltrazioni di luce) abbastanza pellicola per fare 160 foto a colori o 200 foto in bianco e nero.

Questi caricatori formavano la parte posteriore delle fotocamere usate per quasi tutte le fotografie scattate durante le escursioni sulla Luna: delle Hasselblad 500EL motorizzate di medio formato (6x6), con esposizione e messa a fuoco manuali e obiettivo a lunghezza focale fissa, quindi senza zoom. Le missioni dalla 11 alla 14 portarono sulla superficie lunare un solo obiettivo, uno Zeiss Biogon grandangolare (60 mm); dall’Apollo 15 in poi fu aggiunto un teleobiettivo da 500 mm.

Figura 5.1-3. Una Hasselblad 500EL per escursioni lunari. Credit: Hasselblad.com.


L’avanzamento della pellicola era gestito automaticamente dal motore elettrico della fotocamera, che è il blocco inferiore nella Figura 5.1-3.

L’operazione di inserimento della pellicola nel caricatore era piuttosto complessa e delicata, come mostrato nel video seguente, riferito a una fotocamera molto simile a quella usata sulla Luna (ma con un rullino molto più corto e quindi meno voluminoso di quello Apollo, visibile invece in Figura 5.1-5), e veniva effettuata dai tecnici prima della partenza dalla Terra.

Figura 5.1-4. Inserimento della pellicola in un caricatore Hasselblad.


Figura 5.1-5. Un tecnico della Hasselblad prepara un caricatore di pellicola per le missioni Apollo. In primo piano si nota il meccanismo di supporto della pellicola su due rulli. Foto C-81-4. Fonte: ALSJ/Ulli Lotzmann.


L’obiettivo era dotato di levette di regolazione maggiorate per consentirne l’azionamento anche con gli spessi guantoni della tuta spaziale. Anche il pulsante di scatto era molto più grande del normale per lo stesso motivo.

La messa a fuoco manuale era guidata da indicazioni sulle ghiere dell’obiettivo ed era agevolata dalla notevole profondità di campo (intervallo di distanze alle quali gli oggetti fotografati sono nitidi) offerta dall’obiettivo grandangolare e dalla regolazione piuttosto chiusa del suo diaframma (apertura regolabile per far arrivare più o meno luce sulla pellicola) consentita dalla forte illuminazione solare: i valori consigliati erano f/5.6 per i soggetti in ombra e f/11 per gli astronauti in pieno sole. Il tempo di posa standard era 1/250 di secondo. Sul caricatore c’erano dei promemoria per le regolazioni del diaframma e del tempo di posa, come mostrato nella Figura 5.1-6 qui sotto. Anche queste regolazioni erano manuali.

Figura 5.1-6. Un caricatore di pellicola usato per la missione Apollo 11. Si nota l’adesivo recante il promemoria delle regolazioni per le varie condizioni di luce.


La mira era approssimativa, perché non c’era un mirino vero e proprio, che sarebbe stato inutilizzabile attraverso il casco della tuta spaziale, e non c’era un’anteprima della foto su uno schermo come si fa oggi con le fotocamere digitali e i telefonini: gli astronauti puntavano la fotocamera guardando lungo il suo asse, come erano stati lungamente addestrati a fare, ed erano assistiti dall’ampiezza dell’inquadratura dell’obiettivo grandangolare (circa 49° in altezza e larghezza, 66° in diagonale).

Le fotocamere usate per le escursioni erano argentate per riflettere la luce e il calore del sole e ridurre il rischio di surriscaldamento; quelle usate a bordo erano nere.

Per le missioni Apollo 15, 16 e 17, a bordo del modulo di servizio erano inoltre montate in posizione fissa delle speciali fotocamere automatiche per la mappatura della Luna, denominate Metric Camera e Panoramic Camera, che scattavano fotografie della superficie lunare dall’orbita su pellicole larghe ben 12,7 centimetri. Come riferimento geografico, queste fotocamere erano coordinate con una Stellar Camera che scattava foto su pellicola 35 mm delle stelle situate allo zenit (sulla verticale) della zona sorvolata.

Le missioni Apollo 11, 12 e 14 scattarono, sempre su pellicola, foto stereoscopiche ravvicinatissime della superficie lunare usando un’apposita fotocamera da appoggiare al suolo, la Apollo Lunar Surface Closeup Camera (ALSCC, Figura 5.1-7). La pellicola era a circa 25 centimetri dal suolo e veniva esposta in condizioni fisse (1/100 di secondo f/22.6) grazie a un flash elettronico incorporato. Ogni scatto generava due foto prese da due angolazioni leggermente differenti e copriva un’area al suolo di circa 75 per 75 millimetri.



Figura 5.1-8. Sulla destra, la fotocamera ALSCC durante la missione Apollo 11. L’astronauta inquadrato è Buzz Aldrin. Foto NASA AS11-40-5931.


Gli astronauti di Apollo 16 e 17 usarono anche una fotocamera Nikon con pellicola 35 mm per scattare foto dell’interno del veicolo e delle stelle visibili attraverso i finestrini.

Tutte queste pellicole sono conservate presso il Film Archive del Building 8 presso il Johnson Space Center (JSC) a Houston, in un freezer a -18°C che sta all’interno di una cella frigorifera a 13°C.


Figura 5.1-9. L’interno della cella frigorifera che contiene le pellicole originali Apollo. A sinistra, il freezer; a destra, pellicole in fase di lento scongelamento per la scansione. Credit: Apollo Image Archive.



Figura 5.1-10. Contenitori di pellicole originali delle missioni Apollo nella cella frigorifera. Si notano in primo piano le etichette delle missioni Skylab e Apollo-Soyuz. Credit: Apollo Image Archive.



Figura 5.1-11. Contenitori di pellicole originali Apollo contenenti le foto delle fotocamere di ricognizione di Apollo 15. Credit: Apollo Image Archive.


Armati di queste nozioni di base sulla tecnica fotografica utilizzata per le immagini scattate sulla Luna dagli astronauti delle missioni Apollo, possiamo ora affrontare le presunte anomalie che i lunacomplottisti ritengono di aver trovato.